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LE RESPONSABILITÀ ANTINFORTUNISTICHE NEL NOLEGGIO DI ATTREZZATURE DI LAVORO
La figura contrattuale del noleggio di un’attrezzatura o macchinario da lavoro comporta alcune rilevanti questioni sul piano dell'applicazione della normativa prevenzionistica, affrontate dalla Corte di Cassazione (Sez. IV Pen., 21.7.2025, n. 26595).

PFAS, POTERI DI ORDINANZA E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE
Il T.A.R. Veneto (Sez. IV, sentenza n. 1428 del 12.10.2023) si è pronunciato sulla richiesta di annullamento di un’ordinanza sindacale emessa ai sensi degli articoli 50 e 54 del D.Lgs. 267/2000 (TUEL) e avente a oggetto il contenimento di sostanze “PFAS” nell’aria emesse da un’azienda attiva nel settore della rigenerazione dei carboni attivi esausti.

CONTRATTO DI APPALTO: VARIAZIONI SOSTANZIALI E PROVA PER FATTI CONCLUDENTI
Con sentenza del 23.8.2025, n. 23752, la Corte di Cassazione ha precisato che, anche in presenza di una clausola sulla forma scritta per le modifiche al contratto, le variazioni sostanziali all’opera accettate di fatto dal committente possono costituire un accordo valido provato tramite facta concludentia.

GIUDIZIO DI DIVORZIO: QUOTA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO DELL’EX CONIUGE
Con sentenza del 17.7.2025, n. 20132, la Corte di Cassazione (Sez. I Civile), ha affrontato il tema del rapporto tra l’assegno divorzile e il diritto dell’ex coniuge a una quota del trattamento di fine rapporto (TFR) percepito dall’altro coniuge e contenuto in un fondo di previdenza complementare.

SITI CONTAMINATI: CRITERI PER L’INDIVIDUAZIONE DEL RESPONSABILE E PROVA LIBERATORIA
Il T.A.R. Basilicata (Sez. I, n. 54 del 23.1.2025) è intervenuto affermando i principi che definiscono la ripartizione dell’onere della prova circa l’attribuzione delle responsabilità ambientali nel caso di siti potenzialmente contaminati.

CONTRATTO DI LOCAZIONE E RISOLUZIONE ANTICIPATA PER INADEMPIMENTO
Con sentenza del 25.2.2025, n. 4892, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno risolto il contrasto giurisprudenziale relativo al risarcimento del danno per mancato guadagno spettante al locatore in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore e conseguente restituzione anticipata dell’immobile.
CONTRATTO DI DISTRIBUZIONE E CLAUSOLA DI GIURISDIZIONE
Con sentenza del 12 luglio 2025, n. 19206, le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate su una vicenda che ha visto contrapporsi una società italiana e una sua distributrice straniera. La società italiana aveva ottenuto più decreti ingiuntivi dal Tribunale di Padova per il mancato pagamento di alcune forniture di refrigeratori, avvenute in esecuzione di un contratto-quadro di distribuzione sottoscritto nel 2022.
La distributrice straniera si era opposta a tali decreti, sollevando una questione di giurisdizione e, in particolare, sostenendo che il contratto-quadro, regolato dalla legge inglese, contenesse una clausola di giurisdizione che attribuiva competenza esclusiva ai tribunali dell’Inghilterra e del Galles per qualsiasi controversia.
Dal canto proprio, la produttrice italiana affermava che i singoli ordini di acquisto erano regolati dalle proprie condizioni generali di vendita, pubblicate sul sito web aziendale. Tali condizioni prevedevano la competenza esclusiva del Tribunale di Padova; pertanto, secondo la sua tesi, l’effettuazione di ordini online, anche dopo la firma del contratto-quadro, implicava l’accettazione tacita della giurisdizione italiana come prevista dalle condizioni generali.
La Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi, hanno accolto la tesi della società distributrice, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano e chiarendo che un contratto di distribuzione non è una semplice somma di compravendite, ma un contratto-quadro atipico che definisce la cornice normativa dell’intero rapporto commerciale e le cui clausole regolano tutte le negoziazioni connesse, a meno che non vi siano pattuizioni contrarie specifiche ed esplicite. Nel caso di specie, peraltro, le condizioni generali di vendita della società italiana, pur contenendo la clausola a favore del foro di Padova, non erano mai state inserite direttamente nei singoli contratti di compravendita, essendo semplicemente richiamate tramite un collegamento ipertestuale che, secondo la Corte, non sarebbe né idoneo, né sufficiente a manifestare un consenso chiaro e preciso a derogare a una clausola di giurisdizione già concordata.
RESPONSABILITA’ EX D.LGS 231/2001 E SOCIETÀ UNIPERSONALE
Con decisione del 15.5.2025, n. 22082, la Cassazione, sezione III penale, si è nuovamente pronunciata sulla possibilità di addebitare la responsabilità amministrativa a enti di piccole dimensioni e, in particolare, alle s.r.l. unipersonali, applicando pertanto alle stesse la disciplina del D. Lgs. 231/2001.
Come evidenzia la stessa Cassazione, la questione si pone in quanto, “in caso di ridotte dimensioni dell'azienda, qualora sussista una piena identificazione tra gli interessi personali della persona fisica e l'ente, vi è il concreto rischio di duplicazione della sanzione nei confronti del medesimo soggetto”.
Nella pronuncia impugnata dinnanzi alla Corte di legittimità la corte territoriale competente aveva richiamato l’orientamento che ammette, tra i destinatari del D.Lgs. 231/2001, le società unipersonali "a condizione che sia individuabile un interesse sociale distinto da quello dell'unico socio, tenendo conto dell'organizzazione della società, dell'attività svolta e delle dimensioni dell'impresa, nonché dei rapporti tra socio unico e società" (sul punto, si veda anche Cass. n. 45100/2021).
Tale precedente giurisprudenziale, sottolinea la Suprema Corte, trova conforto nel dato normativo, prevedendo l'art. 6 comma 4 che, negli enti di piccole dimensioni, i compiti indicati nella lettera b), del comma 1 possono essere svolti direttamente dall'organo dirigente, e di ciò deve tenersi conto valorizzando, d’altro canto, il numero di dipendenti e l'organizzazione aziendale. Ciò al fine di verificare se l'ente sia connotato da interessi propri, da un'organizzazione articolata e da un patrimonio consistente che lo rendono un soggetto economico e giuridico differente dalla persona fisica che lo amministra e che detiene il capitale sociale.
LE RESPONSABILITÀ ANTINFORTUNISTICHE NEL NOLEGGIO DI ATTREZZATURE DI LAVORO
La figura contrattuale del noleggio di un’attrezzatura o macchinario da lavoro comporta alcune rilevanti questioni sul piano dell'applicazione della normativa prevenzionistica di cui al D.Lgs. n. 81/2008, al di là dell'evidente obbligo, da parte del noleggiatore/fornitore, di garantire la funzionalità e la sicurezza dell’attrezzatura o macchinario ai sensi dell’art. 23 del citato decreto. In particolare, la Corte di Cassazione (Sez. IV Pen., 21.7.2025, n. 26595) ha puntualizzato alcuni importanti principi in materia nelle due ipotesi in cui può configurarsi il noleggio, ossia il caso del c.d. "nolo a freddo" e quello del cd. "nolo a caldo", vale a dire, rispettivamente, senza e con operatore fornito dall’impresa locatrice.
Nell'ipotesi di "nolo a freddo" la giurisprudenza ritiene pacificamente che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il soggetto titolare dell'impresa che noleggia macchinari non ha l'obbligo di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione che l'appaltatore di lavori deve adottare in favore dei lavoratori alle sue dipendenze, e pertanto non assume, nei confronti di questi ultimi, una posizione di garanzia in relazione ai rischi specifici connessi all'ambiente di lavoro nel quale essi sono chiamati ad operare (cfr. nello stesso senso, già Cass. Pen., Sez. IV, n. 22717 del 22.4.2016; Cass. Pen., Sez. IV, n. 23604 del 5.3.3.2009).
Più problematica, sul piano antinfortunistico, l'ipotesi di "nolo a caldo", in cui il noleggiatore mette a disposizione dell'imprenditore/noleggiante non soltanto un macchinario, ma anche un proprio dipendente, avente specifica competenza nel suo utilizzo: un ulteriore lavoratore rispetto al quale si pone la questione di stabilire a chi spetti l'obbligo di tutela e protezione di cui è indubbiamente destinatario, come qualsiasi altro lavoratore.
Al riguardo, appare rilevante, secondo i giudici di legittimità, la distinzione tra "nolo a caldo" e “contratto di appalto” (artt. 1655 cod. civ. e segg.): infatti, mentre l'appaltatore si impegna con il committente a compiere un'opera (o un servizio) dovendo organizzare autonomamente e a proprio rischio i mezzi di produzione e il lavoro, nel "nolo a caldo" il locatore si limita a mettere a disposizione il solo macchinario e l'addetto al suo utilizzo, senza alcuna ingerenza nell'attività produttiva e nell'organizzazione dell'impresa locataria.
Ne discende che nel contratto di noleggio, non essendovi alcuna attività autonoma da parte del locatore rispetto all'attività svolta dall'impresa locataria, il primo risponderà solo delle conseguenze dannose derivanti dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche relative all'utilizzo del macchinario noleggiato (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, n. 38071 del 7.7.2016); per il resto, invece, sarà l'impresa locataria/esecutrice, che utilizzi nella propria organizzazione lavorativa il macchinario e il dipendente a esso addetto, ad avere nei confronti di quest’ultimo gli stessi obblighi di tutela che ordinariamente assume nei confronti dei propri lavoratori, compatibilmente con le particolari condizioni di utilizzo della sua prestazione e in relazione agli specifici rischi connessi all'attività lavorativa svolta.
Pertanto, nel rapporto di "nolo a caldo" - a differenza che nell’appalto - non scattano gli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi all'esistenza di un rischio interferenziale previsti dall'art. 26 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, proprio perché il locatore si limita a concedere in locazione un'attrezzatura di lavoro sì manovrata da un suo addetto, ma senza ingerirsi in alcun modo nell'attività dell'impresa locataria, la quale si avvale dell'attrezzatura in questione per la realizzazione della sua attività produttiva in assoluta autonomia e con piena gestione dei relativi rischi, dovendo garantire la sicurezza di ogni addetto alla produzione, ivi compreso quello fornito dal noleggiatore.
PFAS, POTERI DI ORDINANZA E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE
Il T.A.R. Veneto (Sez. IV, sentenza n. 1428 del 12.10.2023) si è pronunciato sulla richiesta di annullamento di un’ordinanza sindacale emessa ai sensi degli articoli 50 e 54 del D.Lgs. 267/2000 (TUEL) e avente a oggetto il contenimento di sostanze “PFAS” nell’aria emesse da un’azienda attiva nel settore della rigenerazione dei carboni attivi esausti. I “PFAS” sono sostanze perfluoroalchiliche che hanno da sempre trovato un vasto impiego in numerose applicazioni e prodotti industriali e che, soprattutto negli ultimi anni, hanno cominciato a essere oggetto di particolare attenzione a causa della loro massiccia presenza rilevata nelle falde acquifere ubicate al di sotto di alcune grandi zone industriali, in particolare in Veneto e Piemonte.
Ai fini del contenimento delle emissioni di PFAS in atmosfera l’ordinanza impugnata, invocando il principio di precauzione, prevedeva l’inibizione dell’utilizzo, per la rigenerazione di carboni esausti contaminati da PFAS, di una delle due linee di rigenerazione presenti nello stabilimento della ricorrente fino alla modifica dell’AIA da parte dell’ente competente e/o di valutazioni tecniche di ARPAV a seguito di ulteriori controlli analitici.
Il T.A.R. Veneto, pur partendo dall’assunto secondo cui il principio in parola consiste “in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica. Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”, ha tuttavia chiarito che, proprio in ragione del fatto che il principio di precauzione mira a gestire rischi potenziali, ovvero rischi che “benché scientificamente probabili non sono esattamente definibili a priori nella loro consistenza”, è necessario che l’attività istruttoria tesa all’accertamento del fatto produttivo dei rischi considerati si svolga in modo particolarmente accurato, nel senso che “l’esistenza, a monte, del fatto produttivo del rischio deve essere pressoché certa, a differenza del rischio, a valle, che, come detto, resta potenziale, ancorché probabile”.
Ciò che, a giudizio del T.A.R. Veneto, non è avvenuto nel caso di specie. Il collegio giudicante ha infatti annullato l’ordinanza impugnata puntualizzando come l‘istruttoria non sia stata eseguita in modo tale da dimostrare l’effettiva e attuale esistenza del fatto produttivo del rischio della dispersione di sostanze PFAS nell’aria, anche considerando l’assenza di un’indicazione, da parte di ARPAV, di una situazione critica tale da richiedere con urgenza l’adozione di provvedimenti extra ordinem. Nel caso di specie, era stata rilevata a seguito di controllo da parte di ARPAV, in un unico campionamento interessante uno dei due camini, una concentrazione di PFAS in aria superiore ai limiti di rilevazione.
In definitiva, la necessità che l’utilizzo dei poteri di ordinanza sindacale sia ben motivato e preceduto da adeguate verifiche vale anche nei contesti di “nuova frontiera” come quello della presenza di sostanze PFAS nell’aria, ancora caratterizzato dalla carenza di evidenze, di studi scientifici e di una disciplina normativa ad hoc, non essendo sufficiente il mero richiamo al principio di precauzione.
CONTRATTO DI APPALTO: VARIAZIONI SOSTANZIALI E PROVA PER FATTI CONCLUDENTI
Con sentenza del 23.8.2025, n. 23752, la Corte di Cassazione ha precisato che, anche in presenza di una clausola che richiede la forma scritta per le modifiche al contratto di appalto, le variazioni sostanziali dell’opera, accettate di fatto dal committente, possono costituire un nuovo accordo valido provato tramite facta concludentia.
La ricorrente (committente dei lavori) sosteneva che la decisione dei giudici di secondo grado andasse cassata nella parte in cui aveva ritenuto provato l’accordo sui lavori extra solo sulla base di presunzioni (facta concludentia), violando la clausola contrattuale che imponeva la forma scritta.
La Suprema Corte ha, tuttavia, respinto questa tesi, richiamandosi a un proprio orientamento consolidato secondo cui, in presenza di opere aggiuntive che comportano notevoli modifiche alla natura o alla quantità dei lavori previsti, non si parla più di semplici variazioni, ma di una vera e propria sostituzione consensuale del regolamento contrattuale. Ne consegue che, in casi di questo tipo, la volontà delle parti di instaurare un nuovo rapporto, diverso da quello originario, possa essere provata anche attraverso comportamenti concludenti.
Il requisito della forma scritta per le autorizzazioni del committente (art. 1659 c.c.) non è, dunque, assoluto: se le modifiche sono così rilevanti da trasformare il progetto, viene ad instaurarsi un nuovo accordo fra le parti che può essere provato con ogni mezzo.
GIUDIZIO DI DIVORZIO: QUOTA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO DELL’EX CONIUGE
Con sentenza del 17.7.2025, n. 20132, la Corte di Cassazione (Sez. I Civile), ha affrontato il tema del rapporto tra l’assegno divorzile e il diritto dell’ex coniuge a una quota del trattamento di fine rapporto (TFR) percepito dall’altro coniuge che abbia anticipatamente destinato il TFR a un fondo di previdenza complementare.
Nel caso di specie, il giudice di primo grado aveva riconosciuto alla ex moglie il diritto al pagamento del 40% del TFR dell’ex marito, ai sensi dell’art. 12-bis della legge n. 898/1970, mentre la Corte d’Appello, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione, aveva riformato integralmente la decisione, ritenendo non dovuta alcuna quota del TFR; in particolare, rispetto a quest’ultimo, la Corte ha precisato che, una volta conferito a un fondo di previdenza complementare, esso cambi natura, passando da retributiva a previdenziale, mentre il diritto dell’ex coniuge a una quota dello stesso riguarderebbe solo le somme effettivamente percepite dal lavoratore all’atto della cessazione del rapporto di lavoro e non quelle trasformate in rendite previdenziali.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia di secondo grado, puntualizzando che l’art. 12-bis della legge n. 898/1970, nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare di assegno divorzile che non abbia contratto nuove nozze il diritto a una quota del TFR dell’altro coniuge, non si applica agli atti di disposizione del TFR consentiti dall’ordinamento, ove effettuati prima della proposizione della domanda di divorzio. I giudici di legittimità hanno, infatti, precisato che il diritto alla quota di TFR, previsto dalla citata norma dell’art. 12-bis della legge n. 898/1970, si riferisce esclusivamente all’indennità percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, mentre non rilevano le somme già uscite dalla disponibilità del datore di lavoro in quanto conferite al fondo pensione prima dell’avvio del giudizio divorzile.
Ne consegue che, il conferimento del TFR a un fondo pensionistico, se avvenuto prima della causa di divorzio, è un atto perfettamente legittimo e sottrae quelle somme alla ripartizione prevista dall’art. 12-bis.
SITI CONTAMINATI: CRITERI PER L’INDIVIDUAZIONE DEL RESPONSABILE E PROVA LIBERATORIA
Il T.A.R. Basilicata (Sez. I, n. 54 del 23.1.2025) è intervenuto affermando tre principi che definiscono la ripartizione, tra l’autorità competente che agisce ex art. 244 del D.Lgs. 152/2006 e il soggetto indicato come potenziale inquinatore, dell’onere della prova circa l’attribuzione delle responsabilità ambientali nel caso di siti potenzialmente contaminati.
Innanzitutto, i giudici amministrativi hanno ricordato che per affermare la sussistenza di una responsabilità ambientale occorre accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività industriale svolta e il suo inquinamento. A tal fine, l’autorità procedente può fare ricorso, oltre che alle prove dirette, anche alle presunzioni semplici di cui all’art. 2727 del codice civile, trovando applicazione non l’impostazione penalistica incentrata sul superamento del “ragionevole dubbio”, bensì il canone civilistico del “più probabile che non”. Pertanto, per ritenere sussistente il predetto nesso causale non occorre raggiungere un livello di probabilità prossimo alla certezza, essendo invece sufficiente dimostrare un grado di probabilità maggiore della possibilità o, meglio, che il nesso eziologico ipotizzato dall’autorità competente sia più probabile della sua negazione.
Il T.A.R. ha poi specificato che il soggetto che risulti responsabile sulla base di un ragionamento presuntivo come sopra formulato, e che voglia contrastarlo, non può limitarsi a dedurre genericamente un’ipotetica responsabilità di terzi o un’incidenza di eventi esterni alla propria attività, spettando a quest’ultimo l’onere di fornire una vera e propria prova liberatoria, ossia elementi in concreto idonei a dimostrare la reale dinamica degli avvenimenti e a indicare lo specifico fattore cui debba addebitarsi la causazione dell’inquinamento. Si ricorda inoltre che, anche laddove il soggetto individuato come responsabile lamenti carenze nelle indagini della pubblica amministrazione, lo stesso è tenuto a dimostrare ciò anche attraverso la produzione di una perizia di parte, non potendosi richiedere in giudizio che vi si supplisca con una consulenza tecnica d’ufficio, avendo infatti quest’ultima la sola funzione di fornire al giudice l’ausilio necessario per apprezzare correttamente le prove dedotte dalle parti e non potendo essere disposta per sopperire a una carenza probatoria della parte onerata.
Non solo. La posizione dell’ente nel compimento delle proprie indagini è in un certo modo favorita – e, per contro, quella del privato gravato della prova liberatoria, ne risulta appesantita – dal fatto che nelle materie tecnico scientifiche, come quella relativa all’accertamento della responsabilità per inquinamento ambientale, trova applicazione il principio per cui le valutazioni delle autorità preposte sono ampiamente discrezionali, potendo essere sindacate in sede giurisdizionale nei soli casi di risultati abnormi o evidentemente illogici e contraddittori.
I principi di cui sopra costituiscono un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza amministrativa in questa materia, con i quali pertanto gli operatori devono confrontarsi per tutelare al meglio la propria posizione e limitare le relative responsabilità.
OBBLIGO DI BONIFICA E RESPONSABILITÀ SOLIDALE
Qualora un sito contaminato ai sensi degli artt. 239 e ss. del D.Lgs. 152/2006 (norme in tema di bonifica) sia stato interessato nel tempo dalla presenza di più distinti operatori si pone il problema non solo dell’individuazione dei soggetti responsabili della contaminazione riscontrata, ma anche della ripartizione tra di loro dei conseguenti oneri di bonifica.
Con la sentenza n. 5765 del 4.7.2025 la Sezione VI del Consiglio di Stato ha trattato quest’ultima problematica, enunciando alcuni rilevanti principi peraltro già in parte noti in giurisprudenza.
Innanzitutto, i giudici amministrativi ribadiscono che la responsabilità per la bonifica dei siti contaminati rientri nel più ampio genus del danno ambientale (Direttiva 2004/35). Da ciò discende che la responsabilità per la bonifica, al pari di quella per danno ambientale, rientrante nella fattispecie della responsabilità aquiliana, ha natura solidale, con la conseguenza che l’adempimento dell’obbligo risarcitorio, anche in forma specifica, può essere richiesto a ciascun corresponsabile, ferma restando la possibilità in capo al corresponsabile che abbia integralmente sostenuto le spese di rivalersi in capo agli altri corresponsabili in proporzione ai rispettivi contributi oggettivi e soggettivi di partecipazione (si veda, di recente, anche Cons. Stato, n. 1969/2025).
Una volta individuati i soggetti a vario titolo responsabili della contaminazione riscontrata a carico di uno stesso sito contaminato, dunque, ben può l’amministrazione rivolgere le proprie richieste di adempimento degli obblighi di bonifica a uno qualsiasi di tali soggetti, essendo poi il soggetto interessato del tutto legittimato a proporre azione di rivalsa nei confronti degli altri responsabili in ragione delle rispettive quote nella causazione dell’evento.
Del resto, come già affermato da tempo in giurisprudenza (cfr. Cons. Stato. n. 172/2021), “la ritenuta parziarietà degli obblighi di bonifica potrebbe comportare l’onere, per i vari responsabili, di implementare distinte azioni solo nel caso in cui si riscontrasse che le varie condotte causative di danno hanno in concreto determinato danni-conseguenza ontologicamente distinti e distinguibili e tali da poter essere rimossi con distinte azioni di bonifica: solo in tal caso si potrebbe affermare il principio secondo il quale ciascuno dei responsabili “paga per quanto ha inquinato”, essendo tenuto a porre in essere solo le azioni di bonifica necessarie e sufficienti a rimuovere i singoli danni conseguenti alle rispettive azioni causative di danno. Quando, viceversa, per qualsiasi ragione non sia possibile stabilire o riconoscere gli effetti conseguenti alle singole condotte causative di danno ambientale, allora risulta di fatto impossibile identificare singole azioni di bonifica da porre a carico di distinti responsabili. L’azione di bonifica in tal caso non potrà che tradursi in una unica azione di bonifica, che dal punto di vista esecutivo non potrà che gravare in modo solidale tra tutti i responsabili, fermo restando il principio per cui dal punto di vista economico la relativa spesa dovrà essere suddivisa, nei rapporti interni, secondo le rispettive percentuali di responsabilità”.
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Quanto sopra esposto induce a valutare con grande attenzione ogni singola situazione di contaminazione potenzialmente riconducibile a più soggetti, al fine di approcciare nel migliore dei modi il problema anche nei confronti delle autorità e tutelare al meglio la propria posizione di soggetto corresponsabile negli oneri di bonifica.
RESPONSABILITÀ EX D.LGS 231/2001: VANTAGGIO ECONOMICO E RISPARMIO DI SPESA
Con decisione del 28.7.2025, n. 27669, la Cassazione (Sez. III penale) si è pronunciata su una vicenda relativa a una discarica abusiva realizzata, a partire da un accumulo di materiali, da una società a responsabilità limitata concessionaria di un'attività estrattiva, la quale, come accertato dalle competenti autorità, aveva depositato in un lotto della cava consistenti quantitativi di materiali inerti e residui di lavorazione.
A partire da questo caso di specie, la Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire principi consolidati sul reato di discarica non autorizzata, sulla sua natura permanente e, per quanto interessa qui sottolineare, sulla “qualificazione” del vantaggio dell’ente ai sensi del D. Lgs. 231/2001.
In particolare, dopo aver ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il reato di realizzazione di discarica non autorizzata ex art. 256, comma 3, D.Lgs. 152/2006 ha natura permanente, potendo considerarsi la condotta antigiuridica cessata per effetto del provvedimento di sequestro, la Suprema Corte ha affermato che, nei reati ambientali di questo genere, il “vantaggio” rilevante ai fini della responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001 non deve consistere necessariamente in un profitto economico diretto, ben potendo essere rappresentato dal risparmio di spesa conseguito, fra le altre cose, per aver evitato i costi di smaltimento dei rifiuti.
CONTRATTO DI LOCAZIONE E RISOLUZIONE ANTICIPATA PER INADEMPIMENTO
Con sentenza del 25.2.2025, n. 4892, le Sezioni Unite della Suprema Corte affrontano e risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno per mancato guadagno spettante al locatore in caso di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore e conseguente restituzione dell’immobile prima della naturale scadenza del contratto.
In particolare, le Sezioni Unite della Corte hanno enunciato il seguente principio di diritto: "Il diritto del locatore a conseguire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno da mancato guadagno a causa della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore non viene meno, di per sé, in seguito alla restituzione del bene locato prima della naturale scadenza del contratto, ma richiede, normalmente, la dimostrazione da parte del locatore di essersi tempestivamente attivato, una volta ottenuta la disponibilità dell’immobile, per una nuova locazione a terzi, fermo l’apprezzamento del giudice delle circostanze del caso concreto anche in base al canone della buona fede e restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 1591 c.c.".
In sostanza, i giudici di legittimità hanno stabilito che il risarcimento del danno per il mancato guadagno del locatore non è automatico in caso di risoluzione anticipata del contratto, essendo appunto onore del locatore fornire prove concrete del danno subito, che dimostrino che il mancato guadagno sia una conseguenza diretta dell'inadempimento del conduttore. Peraltro, il locatore ha l'onere di dimostrare di essersi attivato tempestivamente per riaffittare l'immobile.