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GARANZIA PER VIZI: ONERE DELLA PROVA E TEMPESTIVITÀ DELLA DENUNCIA

Con sentenza n. 8775 del 3.4.2024 la Corte di Cassazione è intervenuta per precisare che la prova della preesistenza dei vizi rispetto al momento del perfezionamento del contratto di vendita grava sul compratore. 

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RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI EX D.LGS. 231/2001 E COLPA D’ORGANIZZAZIONE

Con la sentenza n. 4210 del 31.1.2024, la Cassazione ribadisce l’essenza colposa della responsabilità dell’ente per reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso e la “colpa d’organizzazione” come elemento costitutivo di tale responsabilità.

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L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO AI FINI PREVENZIONISTICI

La sentenza della Cass. Pen., Sez. IV, 10.6.2024, n. 23049 ribadisce alcuni principi fondamentali in materia di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con particolare riferimento all’obbligo di vigilanza posto a carico del datore di lavoro e avente rilievo penale.

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PFAS, POTERI DI ORDINANZA E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Il T.A.R. Veneto (Sez. IV, sentenza n. 1428 del 12.10.2023) si è pronunciato sulla richiesta di annullamento di un’ordinanza sindacale emessa ai sensi degli articoli 50 e 54 del D.Lgs. 267/2000 (TUEL) e avente a oggetto il contenimento di sostanze “PFAS” nell’aria emesse da un’azienda attiva nel settore della rigenerazione dei carboni attivi esausti.

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CONDIZIONI GENERALI DI CONTRATTO E CLAUSOLA DI PROROGA DELLA COMPETENZA GIURISDIZIONALE

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 361 del 10 gennaio 2023, si sono pronunciate in materia di validità della clausola di proroga della giurisdizione contenuta in condizioni generali di contratto.

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ASSEGNO DI DIVORZIO E CRITERI DI ATTRIBUZIONE

La Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata a pronunciarsi sui criteri di attribuzione dell'assegno di divorzio.

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AMIANTO NEGLI EDIFICI E POTERI DI ORDINANZA

Interessante decisione della Sezione I del T.A.R. Umbria (sentenza del 16 gennaio 2024, n. 12) in merito all’esercizio dei poteri di ordinanza sindacale contingibile e urgente ai sensi dell’art. 50 del T.U.E.L utilizzati per imporre al proprietario dell’immobile la rimozione dell’amianto ivi presente a fronte della reiterata inattività di quest’ultimo.

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OBBLIGO DI BONIFICA E PROPRIETARIO INCOLPEVOLE

Il Consiglio di Stato (Sez. IV, sentenza n. 1110 del 2.2.2024) interviene con una decisione rilevante sull’eventuale obbligo di bonifica a carico del proprietario non responsabile dell’inquinamento riscontrato in sito.

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MANTENIMENTO DEI FIGLI NON AUTOSUFFICIENTI E PRINICIPIO DI PROPORZIONALITA’

Con ordinanza n. 16950 del 19.6.2024 la Corte di Cassazione ha precisato che nel giudizio di divorzio, al fine di quantificare l'ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti, si deve osservare il principio di proporzionalità.

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LA RESPONSABILITÀ PER L’USO DI MATERIALI RICICLATI NON CONFORMI

Con la sentenza n. 108 del 3.1.2024 la Sez. IV del Consiglio di Stato è intervenuta per precisare i limiti della responsabilità dell’appaltatore nell’utilizzo di materiali riciclati rivelatisi, in fase di messa in opera, non conformi ai requisiti di legge e, come tali, da considerare a tutti gli effetti dei rifiuti.

GARANZIA PER VIZI: ONERE DELLA PROVA E TEMPESTIVITÀ DELLA DENUNCIA

Con sentenza n. 8775 del 3.4.2024 la Corte di Cassazione è intervenuta per precisare che la prova della preesistenza dei vizi rispetto al momento del perfezionamento del contratto di vendita grava sul compratore. Ciò in coerenza con il principio per cui l'obbligo di garanzia dà luogo a una responsabilità speciale interamente disciplinata dalle norme sulla vendita, che pone il venditore in situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo all'iniziativa del compratore. 


In particolare, in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1490 del Codice Civile, il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui al successivo art. 1492 è gravato dell'onere di offrire la prova dell'esistenza dei vizi. Solo per effetto del ritenuto raggiungimento della prova della ricorrenza di tali vizi nei beni forniti è poi onere del venditore fornire la prova dei fatti impeditivi, in assenza della quale può essere affermata la responsabilità del venditore.


In merito alla prova che il compratore deve fornire per potersi ritenere accertata la sussistenza dei vizi sui beni acquistati, la Suprema Corte precisa che essa può anche non riguarda l’intera fornitura, potendosi effettuare una verifica a campione sulla sola quantità di merce disponibile, purché ben rappresentativa di tutta la quantità della merce consegnata.


Un ulteriore profilo di interesse, sempre in tema di garanzia per vizi, è quello relativo alla tempestività della denuncia, da ultimo trattato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 25114 del 23.8.2023. In particolare, i giudici di legittimità si sono soffermati sulla prova della tempestività, la quale presuppone non solo l'indicazione di una data di scoperta del vizio, ma, prima ancora, l'allegazione del tipo di vizio, se palese o occulto: “è necessario, infatti, che l'indicazione della data in cui la scoperta si è asseritamente compiuta sia giustificata e strettamente conseguente alla natura del vizio, perché la decadenza dalla garanzia è stata prevista dal legislatore in riferimento al tempo della “scoperta” per evitare il prolungarsi dell'incertezza sulla sorte del contratto e fare in modo che l'accertamento dell'entità e della causa dei vizi possa compiersi sollecitamente, anche nell'interesse del venditore, perché egli possa intervenire con gli opportuni accertamenti che il decorso del tempo potrebbe precludere e possa essere in grado di eliminare subito a sue spese i vizi”.

RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI EX D.LGS. 231/2001 E COLPA D’ORGANIZZAZIONE

Con la sentenza n. 4210 del 31.1.2024, la Cassazione ribadisce l’essenza colposa della responsabilità dell’ente per reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso e la “colpa d’organizzazione” come elemento costitutivo di tale responsabilità.

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In particolare, la sentenza chiarisce che la mancanza o l’inefficacia dei modelli di organizzazione e gestione non costituisce di per sé un elemento che automaticamente fa scattare la responsabilità dell’ente. Al più, nel caso, si potrebbe ravvisare una colpa organizzativa, che deve essere specificamente dimostrata dall’accusa. In altre parole, l’onere della prova non si inverte a causa dell’assenza dei modelli menzionati, spettando sempre all’accusa dimostrare la colpa d’organizzazione dell’ente.

 

Peraltro, gli enti avrebbero persino la possibilità di presentare altre procedure rispetto ai modelli di organizzazione e gestione che, quand’anche denominate diversamente, siano comprovatamente efficaci nel prevenire i reati specifici in questione. In questo contesto, la Corte si apre a una valutazione più flessibile dell’effettiva capacità di un ente di prevenire reati, non legandola rigidamente alla presenza di un modello formalmente riconosciuto, ma considerando l’efficacia reale delle misure adottate.

 

In definitiva, la sentenza in commento sottolinea l’importanza di sistemi interni efficaci, che rispettino formalmente la legge e siano orientati alla prevenzione dei reati. Ne discende la necessità per gli enti di investire sui propri sistemi di controllo interno.
 

L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO AI FINI PREVENZIONISTICI

La sentenza della Cass. Pen., Sez. IV, 10.6.2024, n. 23049 ribadisce alcuni principi fondamentali in materia di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con particolare riferimento all’obbligo di vigilanza posto a carico del datore di lavoro e avente rilievo penale.  

 
L’obbligo di vigilanza sull’operato dei lavoratori costituisce senza dubbio uno dei temi più rilevanti in ambito antinfortunistico, nonché causa di giustificate preoccupazioni in capo al datore di lavoro, che spesso si trova a dover fronteggiare situazioni di possibili violazioni della normativa antinfortunistica pur credendo di aver adottato, anche mediante la scelta di idonei preposti, tutte le precauzioni e le misure atte ad evitare il verificarsi di infortuni.
Infatti, come statuito dalla Corte di Cassazione nella summenzionata decisione, il datore di lavoro ha non solo l’obbligo di adottare le predette misure e precauzioni in base a quanto prescritto dal D.Lgs. 81/2008, ma ha altresì quello di “vigilare per impedire l'instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per questi ultimi, con la conseguenza che, ove si verifichi un incidente dovuto a una tale prassi instauratasi con il consenso del preposto, la sua ignoranza non vale ad escluderne la colpa, integrando essa stessa la colpa per l'omessa vigilanza sul comportamento del preposto medesimo”.

 

Non solo. Infatti, pur essendo possibile che l’instaurazione della prassi lavorativa contra legem di cui sopra sia riconducibile a una condotta imprevedibile ed eccentrica del lavoratore, come tale esimente della responsabilità del datore di lavoro, anche da questo punto di vista la Suprema Corte non ha mancato di rimarcare la portata limitata di tale esimente, dal momento che, secondo principi espressi da consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea a escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo non tanto ove sia imprevedibile, quanto ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, oppure vi rientri, ma si tratti di qualcosa che sia lontano dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro.
 

La decisione in rassegna conferma l’opportunità, soprattutto nelle realtà aziendali di medie e grandi dimensioni, di procedere a un’adeguata selezione del personale cui delegare idonei poteri da parte del datore di lavoro ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. 81/2008, anche al fine di meglio gestire l’aspetto della vigilanza sull’operato dei lavoratori e limitare così i rischi connessi all’insorgere di responsabilità penali a ciò connesse.

PFAS, POTERI DI ORDINANZA E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Il T.A.R. Veneto (Sez. IV, sentenza n. 1428 del 12.10.2023) si è pronunciato sulla richiesta di annullamento di un’ordinanza sindacale emessa ai sensi degli articoli 50 e 54 del D.Lgs. 267/2000 (TUEL) e avente a oggetto il contenimento di sostanze “PFAS” nell’aria emesse da un’azienda attiva nel settore della rigenerazione dei carboni attivi esausti. I “PFAS” sono sostanze perfluoroalchiliche che hanno da sempre trovato un vasto impiego in numerose applicazioni e prodotti industriali e che, soprattutto negli ultimi anni, hanno cominciato a essere oggetto di particolare attenzione a causa della loro massiccia presenza rilevata nelle falde acquifere ubicate al di sotto di alcune grandi zone industriali, in particolare in Veneto e Piemonte.


Ai fini del contenimento delle emissioni di PFAS in atmosfera l’ordinanza impugnata, invocando il principio di precauzione, prevedeva l’inibizione dell’utilizzo, per la rigenerazione di carboni esausti contaminati da PFAS, di una delle due linee di rigenerazione presenti nello stabilimento della ricorrente fino alla modifica dell’AIA da parte dell’ente competente e/o di valutazioni tecniche di ARPAV a seguito di ulteriori controlli analitici.
 

Il T.A.R. Veneto, pur partendo dall’assunto secondo cui il principio in parola consiste “in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica. Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”, ha tuttavia chiarito che, proprio in ragione del fatto che il principio di precauzione mira a gestire rischi potenziali, ovvero rischi che “benché scientificamente probabili non sono esattamente definibili a priori nella loro consistenza”, è necessario che l’attività istruttoria tesa all’accertamento del fatto produttivo dei rischi considerati si svolga in modo particolarmente accurato, nel senso che “l’esistenza, a monte, del fatto produttivo del rischio deve essere pressoché certa, a differenza del rischio, a valle, che, come detto, resta potenziale, ancorché probabile”.
 

Ciò che, a giudizio del T.A.R. Veneto, non è avvenuto nel caso di specie. Il collegio giudicante ha infatti annullato l’ordinanza impugnata puntualizzando come l‘istruttoria non sia stata eseguita in modo tale da dimostrare l’effettiva e attuale esistenza del fatto produttivo del rischio della dispersione di sostanze PFAS nell’aria, anche considerando l’assenza di un’indicazione, da parte di ARPAV, di una situazione critica tale da richiedere con urgenza l’adozione di provvedimenti extra ordinem. Nel caso di specie, era stata rilevata a seguito di controllo da parte di ARPAV, in un unico campionamento interessante uno dei due camini, una concentrazione di PFAS in aria superiore ai limiti di rilevazione.
In definitiva, la necessità che l’utilizzo dei poteri di ordinanza sindacale sia ben motivato e preceduto da adeguate verifiche vale anche nei contesti di “nuova frontiera” come quello della presenza di sostanze PFAS nell’aria, ancora caratterizzato dalla carenza di evidenze, di studi scientifici e di una disciplina normativa ad hoc, non essendo sufficiente il mero richiamo al principio di precauzione.

CONDIZIONI GENERALI DI CONTRATTO E CLAUSOLA DI PROROGA DELLA COMPETENZA GIURISDIZIONALE

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 361 del 10 gennaio 2023, si sono pronunciate in materia di validità della clausola di proroga della giurisdizione contenuta in condizioni generali di contratto. 

 

Nel caso di specie, una società italiana aveva convenuto in giudizio una società francese per chiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla fornitura di un impianto industriale. La società francese eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, ritenendo competente il giudice francese (nonché ritenendo applicabile la legge francese) sulla base di condizioni generali che prevedevano una proroga di giurisdizione in favore di quest’ultimo. Tale prospettiva veniva tuttavia disattesa dai giudici di primo e secondo grado, che ritenevano non applicabile la citata clausola di proroga della giurisdizione in quanto contenuta in un testo separato e autonomo dal contratto stesso, sebbene nell’indice di quest’ultimo risultasse un capitolo costituito appunto dalle condizioni generali.

 

Su quest’ultimo punto la Corte di Cassazione si è uniformata alle statuizioni della Corte d’Appello, rilevando come tale clausola fosse contenuta in un testo autonomo rispetto al contratto (ossia le condizioni generali di vendita), non richiamato in quest’ultimo, nonché privo di sottoscrizione, con ciò dovendosi ritenere non soddisfatti i requisiti richiesti dall’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968, dall’art. 23 del Reg. n. 44 del 2001 e dall’art. 25 del Reg. n. 1215 del 2012. Questi ultimi, infatti, consentono di derogare ai principi generali stabiliti dagli stessi in materia di competenza a condizione che le parti aderiscano a tale deroga in uno dei modi previsti dalle norme citate. In particolare, il requisito della forma scritta è soddisfatto solo quando il documento sottoscritto da entrambe le parti comprenda, se non la specifica approvazione della clausola di proroga della giurisdizione, almeno un richiamo espresso delle condizioni generali che la contengono, assente nel caso di specie. 

 

La Corte di Cassazione, richiamandosi tra l’altro alla propria precedente ordinanza n. 13594 del 2022, ha pertanto respinto il ricorso della società francese, non ritenendo sufficiente a integrare il requisito di cui sopra la mera indicazione nell’indice del contratto di un capitolo rappresentato dalle condizioni generali, posto che dette condizioni non erano firmate, né la clausola di proroga risultava espressamente richiamata nel testo del contratto stesso.

ASSEGNO DI DIVORZIO E CRITERI DI ATTRIBUZIONE

La Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata a pronunciarsi sui criteri di attribuzione dell'assegno di divorzio. 
 

In particolare, nel caso di specie, il ricorrente ha rilevato a) come la valutazione dei presupposti dell'assegno non possa concentrarsi solo sul periodo della separazione, dovendo prendere in esame l'intera storia del rapporto coniugale, b) come il giudice dell’appello non abbia considerato il principio secondo cui può essere invocata la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio solo qualora la situazione economico-patrimoniale dell'ex coniuge richiedente non garantisca allo stesso l'autosufficienza, c) come non si sia tenuto conto della "formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto" (sul punto, viene richiamata Cass. Civ., n. 10013/2023), né delle "potenzialità reddituali dei coniugi correlate alla loro qualificazione professionale e alle disponibilità immobiliari degli stessi" (Cass. Civ., n. 4200/2023).
 

La Suprema Corte, con ordinanza n. 16703 del 17.6.2024, si è pronunciata sul ricorso, precisando che il diritto all'assegno divorzile non può riconoscersi solo sulla base della durata del matrimonio e dell'accudimento esclusivo o prevalente della prole da parte dell'ex coniuge, dovendosi accertare la sussistenza di diversi fattori: segnatamente, uno squilibrio economico-patrimoniale al momento dello scioglimento del vincolo, le ragioni di detto squilibrio, la riconducibilità della situazione economico-patrimoniale accertata alla conduzione della vita familiare, nonché il concorso della definizione dei ruoli endo-familiari all'accrescimento del patrimonio familiare e dell'ex coniuge. A tale fine, ciò che rileva è dunque la verifica dei ruoli e dei compiti durante la vita familiare.


Inoltre, l’importo dell’assegno divorzile dovuto all’ex coniuge deve tenere in considerazione la costituzione di eventuali nuovi nuclei familiari.

AMIANTO NEGLI EDIFICI E POTERI DI ORDINANZA

Interessante decisione della Sezione I del T.A.R. Umbria (sentenza del 16 gennaio 2024, n. 12) in merito all’esercizio dei poteri di ordinanza sindacale contingibile e urgente ai sensi dell’art. 50 del T.U.E.L utilizzati per imporre al proprietario dell’immobile la rimozione dell’amianto ivi presente a fronte della reiterata inattività di quest’ultimo.
 

I giudici amministrativi ricordano innanzitutto che, per poter ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, occorre la presenza di un pericolo concreto, che imponga di provvedere in via d’urgenza per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale e imprevedibile di pericolo per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento.
 

Al riguardo, è stato ampiamente chiarito in giurisprudenza che “anche il riscontro di uno stato dei luoghi che potrebbe divenire potenzialmente pericoloso per l’incolumità pubblica può legittimare il ricorso al potere extra ordinem da parte del Sindaco, non essendo necessario attendere l’attualizzarsi della minaccia”. Nel caso di specie, è stato ritenuto decisivo l’esito negativo della valutazione dell’indice di degrado dei manufatti contenenti amianto, dal quale si evinceva uno stato “pessimo” del materiale con conseguente necessità di intervento di bonifica da attuarsi in un arco temporale di dodici mesi (a fronte dei quarantotto poi in concreto trascorsi senza che fosse stato avviato alcun intervento).
 

Quanto poi all’attualità della minaccia e dell’urgenza di provvedere, contrastato dalla difesa della ricorrente facendo leva sulla consistenza del tempo trascorso dall’accertamento e sulla proroga inizialmente concessa per l’esecuzione degli interventi di bonifica, ricordano i giudici che, in base a consolidata giurisprudenza, “la potenzialità di un pericolo grave per l’incolumità pubblica è sufficiente a giustificare il ricorso all’ordinanza contingibile e urgente, anche qualora essa sia nota da tempo o si protragga per un periodo senza cagionare il fatto temuto, posto che il ritardo nell’agire potrebbe sempre aggravare la situazione, nonché persino allorquando il pericolo stesso non sia imminente, sussistendo, comunque, una ragionevole probabilità che possa divenirlo, ove non si intervenga prontamente in seguito al riscontrato deterioramento dello stato dei luoghi”.
 

Pertanto, è legittimo l'esercizio del potere di ordinanza contingibile e urgente da parte del Sindaco anche rispetto a situazioni di pericolo note da tempo e non solo in caso di eventi nuovi e imprevedibili, risultando quindi quanto mai opportuno, anche alla luce della decisione in rassegna, non sottovalutare mai situazioni di potenziale non conformità ambientale solo perché perduranti da tempo e apparentemente sotto controllo.

OBBLIGO DI BONIFICA E PROPRIETARIO INCOLPEVOLE

Il Consiglio di Stato (Sez. IV, sentenza n. 1110 del 2.2.2024) interviene con una decisione rilevante sull’eventuale obbligo di bonifica a carico del proprietario non responsabile dell’inquinamento riscontrato in sito.


Se costituisce principio ormai consolidato in giurisprudenza quello per cui il proprietario incolpevole non può di regola essere obbligato alla bonifica, anche in applicazione del noto principio comunitario del “chi inquina paga”, tuttavia secondo il Consiglio di Stato ciò non vale qualora il proprietario abbia assunto in modo spontaneo l’impegno a bonificare, attivando volontariamente il procedimento ex artt. 242 e 245 del D.Lgs. 152/2006 a fronte della scoperta di una potenziale contaminazione, pur se non riconducibile alla propria attività. Le ragioni di tale intervento volontario sono solitamente legate alla necessità di evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che graverebbero sull’area (ossia l’onere reale e il privilegio speciale immobiliare) ovvero, più in generale, di tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie. 
 

In particolare, come statuito in sentenza, “l’obbligo di bonifica e ripristino ambientale sussiste in capo al proprietario che, pur non essendo responsabile, ha attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale. Egli, infatti, deve ritenersi gravato da un’obbligazione la cui fonte va rinvenuta nell’istituto della gestione di affari non rappresentativa ex art. 2028 c.c. talché l’attività utilmente iniziata dal proprietario incolpevole deve essere proseguita fin quando perduri l’absentia domini e dunque fino a quando l’Amministrazione non individui e faccia subentrare l’autore dell’inquinamento”.
 

L’insorgere dell’obbligo di bonifica viene quindi ricondotto a una norma civilistica, ossia l’art 2028 del codice civile sulla c.d. gestione di affari altrui, ai sensi del quale “chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da sé stesso”. Il che, tuttavia, potrebbe significare non solo finire la fase preliminare di caratterizzazione e finanche di analisi di rischio, ma dover iniziare e portare a completamento tutti gli interventi proposti (e/o imposti) e autorizzati.
 

La decisione è tuttavia destinata a sollevare qualche perplessità, dal momento che, nel caso della bonifica ad opera del proprietario incolpevole, la sussistenza di una evidente contrapposizione di interessi tra il proprietario incolpevole e il responsabile della contaminazione sembra far venire meno il presupposto di applicabilità dell’art. 2028, individuato dalla giurisprudenza di legittimità nel gestire l’affare altrui (nella specie, la bonifica da parte del proprietario incolpevole) per conseguire l’esclusivo interesse dell’altro soggetto (ossia l’inquinatore).
 

Alla luce di quanto precede, in caso di rinvenimento di una potenziale contaminazione su di un’area in proprietà, appare quanto mai opportuno procedere a un attendo esame della situazione per predisporre, con piena cognizione di causa e con le opportune cautele, ogni atto del procedimento nei confronti della pubblica amministrazione, sin dalla prima comunicazione ex art. 245 del D.Lgs. 152/2006.

MANTENIMENTO DEI FIGLI NON AUTOSUFFICIENTI E PRINICIPIO DI PROPORZIONALITA’

Con ordinanza n. 16950 del 19.6.2024, la Corte di Cassazione ha precisato che nel giudizio di divorzio, al fine di quantificare l'ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti, si deve osservare il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.
 

Nella caso di specie, il ricorrente ha precisato come la Corte d'Appello, nel considerare il suo reddito, non avesse tenuto conto dell'iscrizione al collocamento, del suo stato di disoccupazione, dei debiti con il fisco, della cancellazione della partita iva e della non titolarità di immobili; ciò, nell'inosservanza del principio di proporzionalità rispetto alle capacità reddituali e patrimoniali di entrambi i genitori, peraltro considerando la maggiore consistenza della condizione economica della madre, che aveva una disponibilità economica, appunto, regolare e costante.
 

La Corte, nel ritenere fondate le doglianze del ricorrente poiché la Corte d'Appello aveva omesso l'esame della situazione economico-patrimoniale della ex moglie, limitandosi di fatto all'esame della sola condizione economica del ricorrente, ha chiarito come, oltre al principio di proporzionalità, sia stato violato anche il principio di eguaglianza dei coniugi.

LA RESPONSABILITÀ PER L’USO DI MATERIALI RICICLATI NON CONFORMI

Con la sentenza n. 108 del 3.1.2024 la Sez. IV del Consiglio di Stato è intervenuta per precisare i limiti della responsabilità dell’appaltatore nell’utilizzo di materiali riciclati rivelatisi, in fase di messa in opera, non conformi ai requisiti di legge e, come tali, da considerare a tutti gli effetti dei rifiuti.


Il punto centrale affrontato dai giudici amministrativi riguarda la rilevanza che assumono i certificati di idoneità d’uso di un materiale riciclato rilasciati dal fornitore, la sola presenza dei quali potrebbe costituire un legittimo affidamento per l’utilizzatore dei materiali in questione (nel caso di specie, un appaltatore di lavori stradali), che porterebbe a escludere qualsiasi responsabilità soggettiva (sia a titolo di dolo che di colpa) in capo a quest’ultimo. Da ciò ne discenderebbe anche l’ulteriore corollario che l’utilizzatore non potrebbe essere destinatario dell’obbligo di smaltimento del materiale dimostratosi non conforme e contaminato.

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Il Consiglio di Stato ha fornito un’interpretazione restrittiva di tale esimente della responsabilità dell’utilizzatore, affermando, con riferimento al caso di specie, che “l’appaltatore, che nel realizzare una strada non operi con la diligenza qualificata richiesta, che ricomprende anche l’obbligo di verifica della conformità dei materiali che utilizza, non può ritenersi esente da responsabilità per illecito sversamento di rifiuti”. Ciò in quanto, prosegue la sentenza, “le certificazioni attestanti la conformità rispetto ai limiti di legge del materiale utilizzato possono essere considerate sufficienti a escludere la responsabilità dell’operatore economico che ha realizzato l’opera, ma a condizione che si riferiscano ai lotti del materiale effettivamente utilizzato” e non genericamente all’attività di chi ha prodotto il materiale.

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Da un lato, viene quindi confermata la sussistenza di un dovere di diligenza qualificata in capo all’appaltatore, che include certamente la verifica delle caratteristiche del materiale qualificato, essendo pertanto legittima l’ordinanza di smaltimento emessa dal Comune nei confronti dell’utilizzatore del materiale risultato nei fatti non conforme.

 

Dall’altro, tuttavia, i giudici amministrativi precisano il limite cui deve spingersi il dovere di diligenza e di verifica dell’utilizzatore di materiali riciclati, da individuare nella circostanza che i materiali effettivamente utilizzati siano muniti di certificazione specificamente riferita a tali lotti, solo in presenza della quale sorge un legittimo affidamento dell’utilizzatore con funzione esimente della responsabilità.
 

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